"Sagra" deriva da sacra. 
             
            E 
              sacre devono essere considerate certe manifestazioni che legano 
              una terra ai frutti che quella stessa terra riesce generosamente 
              a dare. Che restituisce dignità ad arti vecchie di millenni, 
              amorevolmente tramandate di padre in figlio, in un intreccio di 
              tradizione, religione e magia. Un rametto di fico e tre pateravegloria 
              non sono un prezzo alto da pagare per assistere - in una capanna 
              fumosa e buia, col calderone che riluce come una luna piena al miracolo 
              del mutamento del latte in ricotta fumante, candida come le ali 
              di un angelo. E al successivo estasiante scandirsi di tuma, canestrato 
              e primosale. Sono un miracolo i frutti della terra di Sicilia. 
            Lasciatelo 
              dire a chi, come me, vive fuori. E che addentando un solo pomodoro 
              di Pachino - con gli occhi chiusi come in preghiera - può 
              godere per un attimo della carezza del sole siciliano sulla pelle. 
              Un lunghissimo istante di beatitudine, in cui la mente è 
              percorsa dai ricordi d'uve dorate, di vini come corniola, d'intere 
              riviere profumate di zagare e salmastro, stordenti, di fragole, 
              tesori dei boschi custodite da Scavuzzi dispettosi, d'arance 
              rosse di tramonti lontani, perduti, commoventi. 
            Sagra, 
              sacra. 
            Quanto 
              profanate le "sagre del pesce fritto" dai saloni del turismo. 
              Mi sono spesso chiesto di quale pesce fritto si parlasse. Forse 
              di quei masculini d'a magghia - ossia tanto piccini da passare 
              dalle maglie più strette della rete - abbanniati nella 
              pescheria di Catania, con lo sfondo dei neri portali lavici dell'antico 
              Vescovado. Immaginavo quei masculini, dorati da una sapiente frittura, 
              e posti in un cartoccio di carta paglia, caldi caldi. 
            E 
              avevo l'acquolina in bocca. Ma anche nel turismo la confezione, 
              oggi, è tutto. Li vedete impacchettati, quei visitatori, 
              in defatiganti tour privi del bene più prezioso della terra 
              di Sicilia: l'umanità. In pullman in mezza giornata pretendiamo 
              di mostrare loro il nostro immenso patrimonio di beni culturali 
              e naturalistici, senza spiegazioni, approfondimenti, amore. Poi, 
              per fortuna, una rozza mano di contadino pesca un'arancia da un 
              cesto intrecciato come mille e mille anni fa, e la dona a uno straniero. 
              Così avrà fatto più per l'immagine della Sicilia 
              quel villano ignorante che tutti gli studiosi di marketing di questo 
              mondo. Ricordo una scena, a Favignana, qualche anno fa. 
            Jachunùu 
              longu, ora rais della tonnara, impegnato, durante una sagra 
              condita solo da melodiose cialome, a cuocere, dopo la fatica della 
              mattanza, le larghe fette di pesce rosso. Accanto a lui un turista 
              americano, l'unico che riuscisse a eguagliare i suoi due metri e 
              dieci d'altezza, cercava d'imparare i semplici segreti della cottura: 
              l'uno parlava in siciliano, l'altro in inglese. Ma il vino isolano 
              fece il miracolo di farli intendere alla perfezione. 
               
            "You 
              are my brother, and this is my home" disse a fine serata 
              il turista - si scoprì poi che era un importante uomo d'affari 
              - a Jachinu, esaltato dallo spettacolo del tuna fish fishing, 
              ma soprattutto dell'autenticità di quei pescatori. Da 
              due anni vivo a Roma. E posso considerarmi un emigrato, anche se 
              part-time. E un contrabbandiere. Contrabbando, per i barbari abitanti 
              della capitale, carciofi di Cerda, o violetti di Ramacca, arance 
              di Francofonte dal sapore di fragola, piccoli capperi di Pantelleria, 
              e moscato e vino rosso dell'Etna e origano profumato, e le mille 
              leccornie della sontuosa pasticceria siciliana. Da qualche tempo 
              spaccio, anche. Una droga terribile, cui ci si assuefà senza 
              speranza: quel caciocavallo ragusano capace di umiliare persino 
              il parmigiano "principe della cucina italiana". 
            Se 
              dovesse andarmi male con il giornalismo ... 
            Giuseppe 
              Lazzaro Danzuso 
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